NARRAZIONE SURREALE
Narrazione surreale di una corsa che attraversa luoghi e secoli di storia.
I primi raggi di sole scaldavano appena l'armatura leggera che Spartaco aveva indossato. La giornata si preannunciava intensa e lui, di buon ora, era già in cammino verso l'Anfiteatro Flavio. Nel percorrere le rive del Tevere, dove le limpide acque scorrevano rapide in quella tardiva primavera, notò la presenza di stranieri. Erano una moltitudine che diventava miriade vicino al Foro di Augusto. Spartaco, che aveva combattuto in Gallia, era abituato alle stravaganze della capitale, ma lo spettacolo che vide lo lasciò stordito: un fiume di persone in corsa. Decise di cambiare i programmi e li seguì, un po' discosto, perché i primi erano velocissimi mentre quelli vestiti di gonnellini di cenci erano scandalosi.
Quando arrivarono a Piazza Venezia il Duce non era ancora comparso al balcone per annunciare la seconda sciagura al popolo italiano. La folla gridò al passaggio dei maratoneti proprio mentre il Duce dichiarava guerra al mondo intero, credendo così che fossero rivolti a lui gli incitamenti della folla. Il serpentone si snodava lungo via Ostiense, calpestando l'olio dei motori dei camion che per anni avevano servito i mercati generali, quando oltrepassò il ponte sul Tevere proprio mentre una barca, lenta sul fiume, frantumava le ultime anfore di olio. Le anfore, che avevano fatto molta strada per giungere dalla periferia dell'impero, stavano ammassate in cocci su un piccolo cumulo, proprio fuori le mura di Roma.
Il passo celere dei corridori era incessante e monotono; l'affanno non c'era ancora, perché nelle gambe avevano accumulato strada e fatica. Un uomo vestito di un nero mantello e con una maschera calata sul viso passava leggiadro accanto al tempio di Vesta senza neppure smuovere la fiamma del sacro fuoco. In pochi degnarono di uno sguardo un tombino dell'acqua che, secoli dopo, sarebbe diventato una delle attrazioni turistiche di maggior richiamo nel mondo. Una donna, che trascinava una carriola, che le serviva da giaciglio nel suo peregrinare per il mondo, riattraversò il sacro fiume quando i fedeli furono terrorizzati da uno sparo (non certo quello della partenza). I primi invece, maratoneti, lambivano quello stesso Colonnato quando l'uomo vestito di bianco si accasciava per terra e la pistola era ancora fumante. Ma la corsa non si arrestò.
Alla Metà del cammin della loro vita gli atleti di oggi furono applauditi da quelli delle olimpiadi del '68 e quando gli ultimi battiti si perdevano nell'aria si era già a Ponte Milvio, mentre cadeva l'ultima resistenza di Massenzio. Il sole scaldava i piedi e si tornava indietro andando avanti nel tempo, discendendo un fiume che non arresterà la sua corsa, sfiorando l'ara che ha messo zizzania nella patria della cultura quando ne fu creato il suo altarino. Corridori vestiti da pagliacci entrarono nello Stadio Domiziano prima di esser allagato per una battaglia navale, lo percorsero lentamente guardando tavoli imbanditi, facendosi largo fino a ristorarsi dalle mani di lucertoloni laddove un tempo tre tempi affiancati, non certo argentini, facevano bella mostra di se. Arrancando non degnarono di uno sguardo la scalinata celebre per i suoi fiori, non avevano più la forza di gettare la monetina, come se non avessero avuto più il desiderio di ritornare in questa città immortale.
Ma ormai la corsa sta finendo, si ritorna sui Fori dove Spartaco guarda di spalle l'ultimo uomo partito mentre già intravvede il primo arrivato sotto l'arco di gomma e pensa che questi corridori, in fin dei conti, sono vittoriosi come lo erano loro, quando passano sotto l'Arco di Tito festosi di esser sopravvissuti.
Prospero Borea